Il Colombaio Di Santachiara Campale Chianti Colli Senesi 2012

campale

Il Campale è rubino, purpureo sull’unghia. Presenta un profumo intenso, poco persistente, un tocco di boisé con nota floreale appena accennata. Forte vinosità iniziale, piccoli frutti maturi, ciliegia soprattutto, confettura di mirtilli, al palato i tannini sono addomesticati e poco percepiti; è forse sbilanciato in morbidezza: l’acidità è sovrastata da zuccheri consistenti. Il corpo è medio, retrogusto fruttato, ma poco speziato. La percentuale di Merlot unita al governo all’uso toscano rende questo Sangiovese forse troppo morbido, ad alta bevibilità, giovane e giovanile, immediato e divulgativo, ma rimane interessante la struttura nervosa del Sangiovese che pur nel calore, grazie alla freschezza, rimane saldo e lungo.
Ho attaccato la degustazione in modo scientifico perché mi immagino ad esporlo su un immaginifico pulpito dell’Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo di Lorenzetti. Dopo settecento anni l’affresco del Lorenzetti continua a dire molto e perché non assimilare i due governi appena citati, quello senese e quello della vinificazione ad “uso toscano” che prevede una lenta rifermentazione del vino testé svinato sul proprio mosto conservato in botti chiuse fino alla primavera successiva.
Al di là delle percentuali degli uvaggi e di mosto, corrispondentiforse ai personaggi e alla prossemica dell’allegoria lorenzettiana, possiamo dedurre dall’allegoria che un rilancio del Chianti, in chiave laica è possibile, al di là di ogni ortodossia. In negativo, sulla prima parete dell’affresco si evince che l’esasperazione dei conflitti commerciali come politici in “discordia” può condurre alla dannazione (parliamo forse della sovraproduzione esasperata come vanagloria e superbia?). Aggiunge poi nella parete centrale che, per evitare ciò, occorrerebbe un “buongoverno”, basato sull’opportuno dosaggio delle virtù teologali, cardinali e civili (Sapienza, Coraggio, Giustizia e Temperanza). Infine la Concordia la fa da padrone, virtù indispensabile per ogni convivenza civile. Mettiamoci il cuore in pace: per trovare la giusta concordia sui gusti dei vini, sono necessari gusti comuni e ogni decisione decisione politica sulla vinificazione comporta inevitabilmente scelte con conseguenze inaspettate che si auspicano positive e che comunque possono scatenare nostalgie più o meno giustificate (vedasi la posa melanconica della Pace).

Champagne BROCHET-HERVIEUX 2000

brochetLa goccia spande e rattrappisce, le lacrime sono particolarmente oleose a una certa età. Ha settantacinque anni ed ha appena posato la rosa del compleanno sulla tomba di sua moglie. L’ha persa due anni fa e ora sono le dieci di mattina.

Il suo migliore amico gli arriva alle spalle e apre una bottiglia di Champagne Brochet-Hervieuz 2000. In questi due anni non mai ha avuto il coraggio di parlare del lutto con lui, ma ora posa un calice sulla tomba della moglie del suo amico, versa a lei il primo bicchiere, il secondo al suo amico vedovo e il terzo è per lui.
-E’ pur sempre il nostro compleanno: lei avrebbe voluto così, festeggiare insieme noi tre. Stesso giorno, non ricordi?
Il vedovo trae la forza di sorseggiare e in questo gesto risiede già il miracolo di un brindisi. Le circostanze per un tintinnio di flûte si trovano facilmente, ma tanto meno sono opportune, tanto più si “rischia” un brindisi autentico.
There she stands, this lovely creature
There she stands, there she stands
With her hair full of ribbons
And green gloves on her hands
So I asked this lovely creature
Yes, I asked. Yes I asked
Would she walk with me a while
Through this night so fast
She took my hand, this lovely creature
“Yes”, she said, “Yes”, she said
“Yes, I’ll walk with you a while”

E il buio dell’incontro diventa un nero mica cangiante che si dissolve e rende tutto vischioso e brillante. Il perlage è fine e teso, solido nella sua verticale che non casca né si lascia andare, si avvinghia alla tela dell’uvaggio e penetra in superficie che quasi la incendia e diventa impermeabile all’ossigeno, rendendo permeabile tutto il vuoto attorno.
La Mousse è solida e sottile, incredibilmente duratura la ténue che riflette un cordon perenne nella bottiglia. Il colore è ambrato tendente all’oro anticato; i riflessi all’aria aperta sono proditori: il sole mattutino filtra con lucine ramificate che si sintonizzano in un fascio lunare quasi evanescente. E’ qui che il vedovo realizza il differenziale di evanescenza di una bolla di champagne con la vita umana e quel bicchiere che rimane posato sulla lapide, vorrebbe essere bevuto da una bocca enorme senza consistenza o forse alzato da una mano esile, magari in guanti verdi.

When I got home, my lovely creature
She was no longer with me
Somewhere she lies, this lovely creature
Beneath the slow drifting sands
With her hair full of ribbons
And green gloves on her hands

Ci ritrova una mela golden, una punta di burro, una crosta di pane morbida e il profumo di sansa; la chiusura è incorniciata in un tocco di anice e una punta di menta. Perfetta armonia e vitalità. Di più: capisce che solo l’estatico ossia l’effimero che lascia senza parole, può interrompere il dolore e un amico può possedere il machete che apre il sentiero della consolazione.

Barolo Paolo Manzone Meriame 2008 e 2001: il paradosso dei gemelli

ImmagineSarà che sono reduce da una visione 3D di Gravity, film esistenzialmente banale, ma che acquista senso in un’esperienza tridimensionale, sarà che non sapevo dare altra spiegazione a quello che ho provato, ma la verticalina del Barolo Paolo Manzone Meriame 2008-2001 non ho saputo interpretarla altrimenti se non come una conferma del Paradosso dei Gemelli.
Iniziamo con il 2008, già austero, quasi severo: un rubino con forti accenni granati, una viola corposa, una ciliegia acerba, un chiodo di garofano secco, un po’ di ginepro avvolgente, il finale terroso e detonante che non accenna a diminuire, ma ecco il Paradosso dei Gemelli, il 2001 si discosta solo perché più etereo, setoso nonostante la tannicità, d’astringenza ancora sorprendente e vivissima, lontana anni luce dall’esaurirsi, tabacco e mentolo che la spuntano sul finale e un cuoio che batte la suola, ma di là da venire.
Il Paradosso dei gemelli è presto enunciato: il 2001 sembra più giovane del 2008, quasi che il primo avesse percorso un viaggi spaziale a distanza di 8 anni luce verso la stella Wolf 359 e fosse tornato sulla terra dal suo gemello 2008 a salutarlo più giovane di 7 anni (ok, nel Paradosso dei Gemelli di Dingle erano 8).
Sappiamo che il Paradosso dei Gemelli fu confutato apertamente da Einstein, ma con tutto il rispetto che ho per il genio scarmigliato, non mi risulta che lui abbia avuto la fortuna di affrontare la fisica del Barolo.

Amarone della Valpolicella Bertani 1997: l’appuntamento (dove, come, quando).

Il film è L’appuntamento (dove, come, quando) con un “cast d’eccezione” formato da Barbara Bouchet (troppo vestita) e Renzo Montagnani, assoluto protagonista nei panni di Adelmo, un impiegato fiorentino.
L’appuntamento è tra Adelmo e Adelaide, la più avvenente collega del suo ufficio, ma per raggiungere il suo obiettivo, Adelmo deve superare una commedia degli equivoci tipica dei B-movies italiani in una versione particolarmente sobria. Alla fine Adelmo dopo aver lottato contro il traffico, un vigile, una colite, i tentativi di seduzione di una turista straniera…è destinato ad andare in bianco!
Io l’avevo suggerito a Gio: non apriamolo questo Amarone, meglio dimenticarlo in cantina o venderlo e prenderne uno più giovane, sempre Bertani. È vero, è una delle annate migliori degli ultimi 40 anni, ma non l’hai visto nascere e rischi di vederlo morto. Per ben due volte sono riuscito a farlo desistere dall’aprirlo, ma alla terza, con la scusante di una pasta al tartufo morbido del Lungadige, mi chiama e mi dice che la bottiglia occhieggia già sul suo tavolo di marmo.
Allora affrontiamo questo capolavoro con l’indefessa volontà di Adelmo che vuole arrivare alla sua Adelaide. Il primo incidente è un colore particolarmente mattonato, troppo ambrato e troppo poco bronzeo,  ma comunque entra nel bicchiere ancora bello morbido e gliceniroso. Proseguiamo e troppo presto scopriamo che il pericolo maggiore è dietro l’angolo: al naso sale un’ombra di tricloroanisolo, la temibile brutta collega di Adelaide, l’Armillaria Mellea ha tramato dietro le
quinte del tappo! Orrore! Si teme di dover buttare tutto e già si pensa al muletto della serata e invece c’è una svolta: il sentore di tappo scompare al palato e si scopre che si è intervenuti appena in tempo, vale a dire che rischiavamo di perderlo per sempre.
Esce l’asciuttezza vibrante e inconfondibile del Bertani, quella riservatezza espressiva pronta a stupirti al secondo sorso: una sottile china, una nota di liquirizia, la porosità della buccia d’arancia, il caffè con tabacco. Se i tannini sono stati purtroppo depotenziati, la sensazione iperossidativa restituisce un retrogusto dominato da uvetta sultanina ancora croccante perché progressiva che sfiora sentori balsamici e che ha assimilato ogni pericolo di eccesso zuccherino in una delicata tostatura.
Grazie Gio: sprecare talvolta vuol dire salvare.Immagine

Lieben Aich Manincor 2009, introversione geniale

foto (1)Je te veux, Sarabandes, Gymnopédies sono una giostra che chiama e che vuole solo te. Forse sgangherata, forse antiquata, ma tenera, autentica, altera senza essere pedante, dolce senza ruffianerie. In questo morbido, dorato, caldo e vivacemente trattenuto Sauvignon, l’anidride carbonica partecipa alle proiezioni dei raggi luminosi e attraverso esse vedo la giostra roteare. Nei pezzi per pianoforte di Satie le frasi sono corte, insistenti in 4/4, un rock nella musica classica che varia grazie a improvvise rotture di schemi, non intenzionali, non esibite.
E’ un sauvignon sudtirolese, ma – straordinariamente! – non allineato agli standard sudtirolesi che sono medio-alti, ma pur sempre standard. Una voce fuori dal coro, una melodia esotica di frutto della passione e papaya non chiassosa, sviluppata su vibrazioni amplificate dall’abnegazione minerale più che dalla perentorietà fruttata. Il retrogusto sapido è uno scorno alle convenzioni, né vagamente carsico, né sudtirolese, quasi amarognolo, franco ed erbaceo forse a significare che la capacità visionaria come quella racemifera è frutto dell’immaginazione, stimolata dalla ricchezza della sottrazione piuttosto che dall’amplificazione degli stimoli.
Satie nel Lieben Aich ci insegna che il sentimento è profondo quando è privo di sentimentalismo che l’introversione in un genio può rivelarsi infinita anche solo con pochi schemi.

Kante Sauvignon 2003, un fantasma ammaliante

IMG_3102Nella sua ultima personale intitolata How to find a Ghost, la pittrice Jenny Morgan ci suggerisce modi di trovare i fantasmi in noi: i suoi ritratti sono volti evanescenti, ma non trasfigurati, una delicatezza complessa, fatta di sovrapposizioni in finezza che tenta di sfociare nel metafisico. In questo vegliardo sauvignon di Kante ho ritrovato la stessa tessitura fine in superficie che poggia però su una trama elegante e complessa. C’è il nerbo di un vitigno importante: un corpo possente di frutto maturo come la banana e il frutto della passione; c’è la pietra carsica che prospera vigorosa e che permette di amplificare le sensazioni olfattive e soprattutto degustative: la selce che sostiene la parte vegetale di foglia di pomodoro, peperone, menta piperita e una componente floreale di rosa in recessione. Tutto è stato però trasformato, come nelle tele di Morgan, diluito, sfumato con pennellate d’acqua (di mare?) leggere, ma decise che hanno reso la parte fruttata più dolce, meno pungente, molto morbida, quasi passita. Gli aromi terziari emergono con forza, la vaniglia è quasi scomparsa in una crema al limone e sambuco intensa, ampia, voluminosa. Con questa esperienza comincio a credere che in realtà i fantasmi sono reali e quotidiani in quanto sono i corpi delle nostre emozioni, soprattutto quando passano e quando consciamente o inconsciamente le rivogliamo vedere. Pertanto un fantasma di sauvignon, in quanto a corporeità emozionale non è certo un sauvignon fantasma!

Dolcetto d’Alba 2009 Luciano Sandrone: l’umiltà, l’eleganza, l’amicizia

Nell’Eldorado del Barolo, Luciano Sandrone non è semplicemente un faro, ma una frontiera. Partiamo da questo assunto per transitare verso altri lidi che le capacità di Sandrone possono offrirci, come ad esempio il suo Dolcetto. Qui il tema si fa delicato, non vorrei apparire querimonioso, un salvatore della patria autoctona, un compassionevole soccorritore dell‘“uvaggio in difficoltà”: io bevo con sentimento e mi appassiono se bevo del sentimento e qui c’è.

La situazione è ideale: l’oste è burbero, laconico, poco sorridente. Dopo aver consumato con uno dei miei migliori amici due buoni spumanti, chiedo il Dolcetto di Sandrone. Gli occhi del gestore brillano. Non credo sia per il nostro conto che sale, relativamente poi, ma perché l’abbiamo toccato, lui, l’oste. Subito ci consiglia di degustarlo “freschino” per assaporarlo al meglio e non fraintenderlo, lui, il vino.
Ha ragione. Arriva in un raffredda vino con pochissimo ghiaccio ed è subito un baluginare di colori purpurei con riflessi violacei nei nostri occhi. La violetta e l’iris sono predominanti, poi arriva una leggera ciliegia e i frutti di bosco li senti perché li hai sotto i piedi; per la sua morbidezza mista a pizzicori piccanti sembra appunto di camminare scalzo in un bosco autunnale: a volte calpesti foglie morbide, altre sassolini aguzzi. Finisce con un filo di mandorla e forse liquirizia. E’ persistente senza essere cerimonioso.

Nel momento in cui io e il mio amico rischiamo d’annegare in varie dolcezze di ricordi, arriva l’oste scontroso a soccorrerci, ci toglie la bottiglia dal raffredda vino, la tocca fino ad abbracciarla e la mette sul tavolo asciugandola “non vorrei che vi si raffreddi troppo”.
Ecco che il Dolcetto si rivela un amico profondo, secondo l’Etica Nicomachea di Platone, aiuta a conoscere i limiti, ti corregge, correggendolo, suggerisce innanzitutto, attraverso la sua consistenza serica che la finezza e l’eleganza possono nascere anche dall’umiltà, che la delicatezza non significa fragilità.

Chardonnay Marina Cvetić 2003

“C’è una teoria secondo la quale esistono miliardi di universi paralleli a quello in cui viviamo, ognuno un po’ diverso dall’altro. Ci sono quelli in cui non sei mai nato e quelli in cui non vorresti nascere.” Inizia così il racconto Universi Parallelidel magistrale scrittore israeliano Etgar Keret e questi mondi possono essere quelli dello Chardonnay. Impossibile parlarne con giudizio senza accettare la sua estrema complessità e versatilità, la sua diffusione globale, ma allo stesso tempo il suo adattamento ai diversi terroir, di conseguenza, se ci troviamo di fronte questo importante Chardonnay Marina Cvetić, dobbiamo innanzitutto ricondurlo nei suoi binari o meglio nella sua rotta perché le strade possono essere molte.

In questo caso, la sua calda vibrazione ci riconduce inequivocabilmente ai corposi Chardonnay neozelandesi e/o californiani, non certo verso i minimali Chablis o Chardonnay trentini (quelli vinificati rispettando la loro indole di vini di montagna). Lo Chardonnay Kvetic’ è giallo oro antico, sardanapaliano, dieci anni di vita e una robustezza invidiabile, un attacco subito fruttatissimo, pochissima mela, più pesca a pasta bianca, ma soprattutto banana e nespola matura, sovrastata ancora da tanta, tanta vaniglia non di bacca, ma di crema-cremosissima. Si sa che da Masciarelli, soprattutto in questo periodo in cui il signor Gianni non ci aveva ancora abbandonato, il legno non era usato a sproposito e tutto lascia pensare che questo vino è capace di evolvere ulteriormente. Vorrei infatti ritrovarlo tra altri dieci anni per capire in quale universo parallelo si sarà dislocato.

Mi chiedo dunque se l’ho suicidato troppo presto oppure se ho esperito un sogno morbido di autentica vaniglia non troppo allignata in botte. Forse entrambi, proprio come scrive Keret: “Io amo lei e lei ama me. (…) C’è un universo in cui sono steso con i polsi tagliati sul pavimento della camera da letto. Mi sto dissanguando. Questo è l’universo in cui sarò costretto a vivere fino a quando non sarà finita. Non voglio pensarci ora. Voglio pensare solo a quello in cui c’è la casetta nel bosco, il sole che tramonta e noi che andiamo a letto presto.”

Vinsanto Art Space 2001

Si evince dalla Teogonia di Esiodo e da alcuni frammenti della Titanomachia che gli dei riuscirono a battere i Titani solo dopo l’alleanza stretta con i ciclopi e gli ecatonchiri (i giganti dalle cento braccia); in particolare Zeus, dopo aver liberato i ciclopi ricevette da essi, come segno di gratitudine, le folgori, lo strumento più micidiale.

Sono sicuro che le viti nane di Santorini crescano nei minuscoli crateri scavati dai lapilli di queste folgori perché sembra proprio essere l’isola di Santorini, il luogo dove è avvenuta la riscossa di Zeus sui Titani. Agli uomini, subtitani, non rimane che coltivare questi minuscoli crateri dove la vite si intreccia a nido e si intrica a rovo. Si comporta quasi da pianta grassa: capace di trattenere fino all’ultima goccia d’acqua contro il sole battente, il vento eradicante e l’afa soffocante, un’afa non del tutto deleteria perché di notte diventa nebbia salvifica per le viti.

Non si improvvisano viticoltori da queste parti: una tradizione che risale a 4000-5000 anni fa, certo, con probabili lunghe interruzioni, ma con un interesse per il vino mai avverso. La cantina che ho visitato si chiama Art Space ed è in realtà una cantina-galleria, probabilmente pensata per intercettare al meglio i turisti frettolosi che popolano l’isola, ma che contiene opere d’arte contemporanea greca imperdibili (si veda in particolare il post impressionismo di Andreas Kontellis). E’ una cantina di nicchia con una produzione vinicola limitata (10.000 bottiglie), riservata ai visitatori e ai clienti diretti, dove protagonista è l’Assyrtiko, il varietale a bacca bianca più versatile della Grecia che su quest’isola ha trovato condizioni ottimali di adattamento. 

Arrivo il 15 agosto, ovvero l’ultimo giorno della vendemmia 2013! e provo questo Vinsanto 2001; la ricetta è semplice: 90% di Assyrtiko (alcuni filari coltivati con primi timidi tentativi di guyot) e il taglio restante con i varietali di Aidani e Athiri, una cuvée in grado di sostenere alcolicamente e dolcemente la freschezza del primo uvaggio. La folgore di Zeus rutila di un giallo eclisse; al naso si presenta un bouquet agrumato di straordinaria acidità per un passito, poi segue l’incontenibile mineralità di morbida pietra focaia e di dolce potassio di roccia vulcanica; c’è l’anima passita della melassa, dei fichi secchi, delle ciliegie marasche, ma il bello arriva sul finale, quando si alza il sipario degli aromi terziari, non solo cioccolato, non la botta del caffè, ma idrocarburi melliflui equilibrati che rendono l’invecchiamento degno di essere ascoltato in silente rapimento.

Spero che i fratelli greci perpetuino la tradizione del Vinsanto così come viene preservata nella Magna Grecia, che tutelino questo terreno, patrimonio dell’umanità, un suolo vulcanico, forse ironico e forse ozioso perché disposto ad aspettare che tutto venga annientato non dalle forze della natura, ma dall’uomo che di qui passa spensierato, veloce e distruttivo come un lapillo.

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(foto da “Il cucchiaio d’Argento”)